La recente modifica dell’articolo 7 del Codice della Strada, introdotta dall’articolo 23, comma 1, lettera a), n. 3), della Legge 25 novembre 2024, n. 177, è chiaro elemento rafforzativo, ma di certo non rappresenta un’innovazione paradigmatica nel panorama normativo della circolazione stradale, ribadendo i confini concettuali della distinzione tra dominio pubblico e privato nell’ambito della viabilità.
La nuova disposizione nell’ampliare il concetto sancisce che le aree destinate al parcheggio devono essere collocate fuori dalla carreggiata e strutturate in modo da non ostacolare lo scorrimento del traffico veicolare, quindi introduce il principio per cui tali aree, qualora accessibili senza restrizioni specifiche, debbano considerarsi ad uso pubblico, indipendentemente dalla natura del titolo di accesso, sia esso subordinato al pagamento di un corrispettivo o regolato da dispositivi di controllo automatizzati.
L’intervento normativo cristallizza una ratio già abbondantemente affermata anche in ambito giurisprudenziale, secondo la quale il criterio fondante per l’applicazione del Codice della Strada è la destinazione funzionale dell’area alla circolazione pubblica piuttosto che il regime proprietario della stessa.
Tuttavia uno dei principali elementi di criticità nell’applicazione uniforme del Codice della Strada deriva proprio dall’errata interpretazione normativa spesso perpetrata dai tecnici, in particolare ingegneri e architetti operanti negli uffici tecnici comunali.

Questi professionisti, il cui ambito di competenza si radica prevalentemente nelle disposizioni del Codice Civile relative al diritto di proprietà, tendono frequentemente a trascurare l’applicabilità del Codice della Strada nelle aree di proprietà privata, ma di fatto destinate alla circolazione pubblica.
Tale approccio riduttivo e formalistico conduce a un errore interpretativo sistematico, con conseguenze dirette sulla corretta gestione del regime giuridico delle aree soggette a pubblico transito.
In numerosi contesti amministrativi, si assiste a una prassi distorta per cui i tecnici, applicando rigidamente i principi civilistici di proprietà e possesso, giungono ad affermare che un suolo privato, indipendentemente dal suo utilizzo concreto, non sia soggetto alle disposizioni del Codice della Strada.
Tale trattamento ignora il principio cardine, più volte ribadito dalla Corte di Cassazione, secondo cui l’elemento decisivo per l’applicazione della disciplina stradale non è la titolarità dominicale dell’area, bensì la sua destinazione funzionale al transito pubblico.
La giurisprudenza ha infatti chiarito che l’uso pubblico effettivo di un’area comporta necessariamente l’applicabilità delle norme in materia di circolazione stradale, con la conseguente possibilità per gli organi di polizia di esercitare le loro funzioni di vigilanza e controllo, indipendentemente dalla proprietà del suolo.
L’errata convinzione diffusa da tali tecnici non solo ingenera confusione tra i cittadini, ma determina anche situazioni di illegittima sottrazione di aree di uso pubblico alle norme sulla sicurezza della circolazione.
In molte occasioni, privati proprietari di suoli aperti alla viabilità comune vengono erroneamente indotti a ritenere che le Forze di polizia non possano intervenire per accertare violazioni del Codice della Strada, né addirittura accedere all’area per svolgere funzioni di prevenzione e controllo.
Tale interpretazione, priva di fondamento giuridico, rischia di creare vere e proprie zone franche in cui la disciplina stradale risulta inapplicabile per un mero errore concettuale nella qualificazione giuridica delle aree.
Ne consegue che la corretta applicazione del Codice della Strada non può essere subordinata a interpretazioni tecniche fondate esclusivamente sulle norme del Codice Civile, bensì deve essere garantita da una lettura sistematica dell’ordinamento, che tenga conto del fine ultimo della disciplina stradale: assicurare la sicurezza e l’ordine della circolazione in tutte le aree effettivamente destinate al pubblico transito.
Gli organi di polizia, pertanto, conservano il pieno potere di intervento in qualsiasi area aperta alla circolazione generale, senza che la mera proprietà privata possa costituire un limite all’applicazione del codice della strada.

Questo assunto trova pieno riscontro nell’orientamento consolidato della Corte di Cassazione, la quale ha più volte ribadito come la qualificazione giuridica di una strada non possa dipendere – come in effetti non dipende – unicamente dal dato catastale, ma debba fondarsi sulla sua destinazione oggettiva ictu oculi e sull’uso che ne fanno de facto gli utenti.
La previsione normativa, pertanto, si colloca nell’alveo di una evoluzione interpretativa finalizzata a garantire un’applicazione uniforme della disciplina stradale e a superare le ambiguità derivanti da una rigida contrapposizione tra suolo pubblico e privato.
A ulteriore conferma di questo principio, l’articolo 37 del Codice della Strada dispone che la regolamentazione della segnaletica stradale coinvolge anche le aree private ove destinate al pubblico transito, in particolare sancendo che il Comune deve apporre la segnaletica stradale non solo sulle strade pubbliche, ma anche su quelle private aperte alla circolazione generale, rafforzando il principio di un’applicazione funzionale delle norme in materia di viabilità.
Nel sistema normativo delineato dal Codice della Strada, il confine giuridico tra area di “uso pubblico” e area di “uso privato” è individuato esclusivamente dalla presenza di un segnale di passo carrabile, autorizzato regolarmente e conforme alla normativa vigente, o da un’effettiva barriera fisica che impedisce l’accesso indiscriminato, come un cancello o un altro dispositivo di chiusura.

Solo in presenza di tali elementi si configura un’interruzione legale dell’applicabilità delle norme del Codice della Strada, poiché la destinazione d’uso dell’area non è più quella della circolazione generale, ma diviene circoscritta ai soggetti titolari di uno specifico diritto.
Tale principio è coerente con il divieto, sancito dallo stesso Codice, di apporre segnaletica non conforme, la cui installazione arbitraria costituisce non solo un’irregolarità amministrativa, ma anche un potenziale fattore di disorientamento per gli utenti della strada.
Segnali di “strada privata”, “proprietà privata” o altre diciture simili, se non supportati da un provvedimento legittimante e dalla segnaletica ufficiale prevista dalla legge, non producono alcun effetto giuridico in relazione all’applicabilità delle norme di comportamento.

L’utente della strada deve potersi conformare unicamente alle indicazioni fornite dalla segnaletica prevista dal Codice della Strada, senza essere gravato dall’onere di discernere la validità di segnali non ufficiali.
In tal senso, la funzione regolatoria della segnaletica stradale si traduce in un principio di certezza del diritto, garantendo che l’ordinamento giuridico non lasci spazio a interpretazioni arbitrarie o a iniziativa privata in contrasto con la normativa statale.
Tutto ciò in quanto risulterebbe assai irragionevole, anzi impossibile pensare che ogni utente della strada possa o debba conoscere il catasto terreni per determinare la proprietà delle superfici su cui circola e, quindi, adattare la propria condotta di guida.

La funzione del Codice della Strada è, infatti, quella di regolamentare in modo chiaro e uniforme la mobilità, affinché chiunque si trovi a circolare su un’area destinata all’uso pubblico possa farlo secondo regole certe, senza dover indagare sulla natura giuridica del suolo.
Lo stesso principio vale per gli organi di polizia stradale, i quali non possono essere gravati dall’onere di consultare la mappa catastale ogni qualvolta intervengono su un’area aperta alla circolazione.
A onore del vero possiamo anche dire che la frase “la strada è privata” costituisce una “scusa” sovente opposta anche da alcuni appartenenti agli organi di polizia per schivare il lavoro.
Peccato però che tale loro affermazione sia del tutto fallace e anche foriera di non poche responsabilità, considerato che gli interventi di polizia stradale sulle strade private a “uso pubblico” non sono una facoltà bensì un obbligo costituente reato in caso di omissione.
La certezza del diritto impone che le norme sulla viabilità siano immediatamente percepibili dal pubblico e altrettanto immediatamente applicabili in base alla destinazione di fatto dell’area e non alla sua proprietà formale.
L’unicità dell’intervento normativo si colloca anche nel quadro di una netta distinzione tra l’ambito di competenza della giurisprudenza ordinaria e quello della giustizia amministrativa.
La regolamentazione della circolazione stradale strictu senso intesa non è, infatti, materia che attiene alla mera gestione amministrativa del patrimonio viario, bensì costituisce un settore normativo autonomo volto a tutelare la sicurezza e l’ordine della mobilità pubblica vista nella sua quotidiana dinamicità.

Ne consegue che l’unico organo competente a pronunciarsi in materia di circolazione stradale è la Corte di Cassazione, con esclusione di pronunce del Consiglio di Stato e dei Tribunali Amministrativi Regionali, la cui funzione giurisdizionale è limitata alla legittimità degli atti amministrativi e non all’interpretazione di legittimità delle norme sulla circolazione stradale.
La definizione di circolazione stradale contenuta nell’articolo 3, comma 1, n. 9, del Codice della Strada chiarisce che essa comprenda il movimento, la fermata e la sosta dei pedoni, dei veicoli e degli animali sulla strada.
La norma così modificata rafforza, dunque, l’assunto per cui la regolamentazione della viabilità e della sosta deve trovare applicazione in tutte le aree in cui si realizzi un fenomeno di circolazione generalizzata, a prescindere dalla titolarità della superficie viaria.
Questo aspetto assume particolare rilevanza anche in termini sanzionatori, poiché consente di applicare le disposizioni del Codice della Strada in maniera uniforme, evitando che talune aree diventino zone franche esenti da regole di sicurezza e disciplina della circolazione, sol perché di proprietà privata ma pur sempre ad uso pubblico (si pensi per es. a un marciapiede ancora accatastato al privato ma percorso quotidianamente da tutti, oppure un porticato sempre di libero e indifferenziato transito.
L’introduzione di questa nuova disposizione normativa si inserisce, dunque, in un più ampio processo di consolidamento dell’efficacia della disciplina stradale, armonizzando l’applicazione delle regole del Codice della Strada con la realtà fenomenologica della circolazione.
Insomma, questo ulteriore sviluppo normativo consente di superare ogni eventuale incertezza interpretativa, qualora ancora ve ne fossero, e di fornire agli operatori del diritto uno strumento chiaro ed efficace per la regolamentazione della sosta e del traffico, allineandosi alle moderne esigenze di gestione della mobilità urbana e alla tutela degli utenti della strada.
Parte della più significativa giurisprudenza di legittimità:
Cass. civ., Sez. II, Ordinanza, 05/02/2024, n. 3251 – La definizione di “strada”, che comporta l’applicabilità della disciplina del relativo codice, non dipende dalla natura, pubblica o privata, della proprietà di una determinata area, bensì dalla sua destinazione ad uso pubblico, che ne giustifica la soggezione alle norme del codice della strada per evidenti ragioni di ordine pubblico e sicurezza collettiva.
Cass. civ., Sez. II, Ordinanza, 05/06/2018, n. 14367 – Ai fini dell’applicabilità della disciplina del codice della strada, non rileva la proprietà della strada, bensì la destinazione di essa ad uso pubblico, in quanto è l’uso pubblico a giustificare, per evidenti ragioni di ordine e sicurezza collettiva, la soggezione delle aree alle norme del codice della strada.
Cass. civ., Sez. I, 10/09/2003, n. 13217 – Ai fini dell’applicazione delle norme del codice della strada, per individuare come «strada» ai sensi dell’art. 21 «l’area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali» (comma 1), è rilevante non la proprietà, ma la destinazione di essa ad uso pubblico – atteso che le strade vicinali, per definizione di proprietà privata anche se di uso pubblico, ai fini del codice «sono assimilate alle strade comunali» (comma 7) – in quanto è l’uso pubblico a rendere pertinente anche a una strada di proprietà privata le cautele imposte dall’art. 23 nella collocazione di insegne, manifesti, cartelli etc. per garantire la tutela dell’interesse alla sicurezza della pubblica circolazione sulle strade, quale ne sia la proprietà; ne consegue che per «la collocazione di cartelli e di altri mezzi pubblicitari» su una strada, appartenente ad un soggetto privato ma di uso pubblico, l’autorizzazione «dell’ente proprietario della strada» prescritta dall’art. 23 dello stesso codice va richiesta, ove si tratti (come nella specie) di strada posta all’interno di centri abitati, al comune, cui è attribuita (al comma 4) la relativa competenza.
Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 29/03/2023, n. 8879 – In relazione alle strade vicinali sussiste la responsabilità per custodia del Comune a prescindere dal fatto che esse siano di proprietà privata, purché esse siano inserite tra le strade adibite a pubblico transito. È, pertanto, l’uso pubblico a giustificare, per evidenti ragioni di ordine e sicurezza collettiva, la soggezione delle aree alle norme del codice della strada e la legittimazione passiva del Comune, fondata sugli obblighi di custodia correlati al controllo del territorio e alla tutela della sicurezza ed incolumità dei fruitori delle strade di uso pubblico, in relazione agli eventuali danni riportati dagli utenti della strada.
Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 29/03/2023, n. 8879 – Con riguardo alle strade vicinali, ove le stesse siano adibite al pubblico transito, sussiste la responsabilità ex art. 2051 c.c. del Comune, la quale può aggiungersi a quella dei comproprietari dei fondi viciniori, fondata sul concorrente obbligo di custodia discendente dalla titolarità del diritto di proprietà sul bene.
Cass. civ., Sez. VI – 3, Ordinanza, 07/02/2017, n. 3216 – In caso di danni causati dalla difettosa manutenzione di una strada, la natura privata di quest’ultima non è di per sé sufficiente a escludere la responsabilità del comune, ove dalla destinazione dell’area o dalle sue condizioni oggettive si possa desumere che la manutenzione spettasse a detto ente.
Cass. civ., Sez. I, 05/08/2005, n. 16529 – Compete al Comune, ai sensi dell’art. 37, comma 1, del codice della strada, l’attività di apposizione e manutenzione della segnaletica, oltre che nei centri abitati, anche sulle strade private aperte all’uso pubblico (e sulle strade locali), coerentemente, del resto, con il criterio, risultante dall’art. 2, di identificazione delle strade soggette alla disciplina del codice, ossia il criterio della destinazione ad uso pubblico – e non della proprietà – della strada.
Luca Montanari
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